Quando a scuola si insegnava la lingua sarda

Quando a scuola si insegnava la lingua sarda

2 gennaio 2016

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Francesco Casula

Pochi sanno che c’è stato un periodo della nostra storia in cui a scuola si insegnava la cultura, la storia e la lingua sarda. Paradossalmente proprio durante i primi anni di quel regime, che poi sarebbe stato il nemico più brutale e feroce nei confronti di tutto quello che atteneva al locale e alla specificità sarda.

Siamo negli anni 19221924 quando il valente e avveduto pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, alle dirette dipendenze dell’allora ministro della Pubblica IstruzioneGiovanni Gentile, come direttore generale dell’Istruzione primaria e popolare, provvide alla stesura dei programmi ministeriali per le scuole elementari, prevedendo fra le altre anche l’uso delle lingue regionali nei testi didattici per le scuole con il programma Dal dialetto alla lingua, nel rispetto delle differenze storiche degli italiani e per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari, partendo dalla lingua viva: a questo proposito rimando alle sue magistrali Lezioni di Didattica, (l’ultima edizione, in versione anastatica, è del 1970).

In seguito all’approvazione dei nuovi Programmi per le scuole elementari (17 novembre 1923) in Sardegna furono adottati per l’anno scolastico 1924-25 testi scolastici di vari autori ma uno in particolare, Sardegna-Almanacco per ragazzi di Pantaleo Ledda.

Con questo sussidiario nelle scuole primarie della nostra Isola irrompeva l’intero universo culturale sardo: dalla cultura materiale e dalle risorse e attività economiche e produttive (agricoltura, pastorizia, miniere, pesca, saline, acque termali) alla cultura immateriale (letteratura in primis); dalla geografia alla storia: dalle origini alla civiltà nuragica alle invasioni straniere. Con gli uomini sardi più famosi :da Amsicora a Mariano IV, da Eleonora d’Arborea a Leonardo d’Alagon; da Giovanni Maria Angioy a Gianbattista Tuveri; da Grazia Deledda e Montanaru. Ma anche da uomini (poeti, scrittori, storici, letterati, vescovi e giuristi, scienziati e medici) meno conosciuti ma ugualmente illustri e che comunque hanno fatto la storia della Sardegna, arricchendola con la loro opera.

Catalogati per singole città e paesi nativi, e ricordati in brevi ritratti, i Sardi li conoscono oggi quasi esclusivamente perché hanno loro intitolato qualche via, piazza o qualche scuola: penso a Sigismondo Arquer (l’intellettuale cagliaritano vittima dell’Inquisizione e condannato al rogo in Spagna), o penso a Vincenzo Sulis e a Domenico Millelire, due dei protagonisti nella lotta vittoriosa contro i Francesi nel 1793. O penso ancora al bosano Nicolò Canelles che introdusse la stampa in Sardegna; al medico di Arbus Pietro Leo, che contribuì grandemente alla rigenerazione della medicina sarda; allo storico Pietro Martini, uno dei fondatori della storiografia isolana; all’archeologo e linguista ploaghese Giovanni Spano (autore di un dizionario sardo-logudorese); all’oristanese Salvator Angelo de Castro, che si adoperò per l’istituzione delle scuole elementari in molti comuni della Sardegna. E a tanti altri ricordati in questo sussidiario.

Insieme alla storia, la protagonista assoluta del libro di Pantaleo Ledda è la lingua sarda: nelle sue varianti e varietà ma anche nelle Isole alloglotte (è presente il Gallurese come il Sassarese). Il Sardo viene utilizzato nelle poesie: ad ogni stagione ne viene dedicata una. Ma anche nelle preghiere e nei precetti, nelle canzoni e canzoncine, nei proverbi e nei motti, negli scongiuri e nei dicius, negli scioglilingua,nelle cantilene e nelle ninne nanna, nei giochi, negli indovinelli e nelle leggende. Ad esprimere una vastissima e ricchissima tradizione culturale, soprattutto orale, una saggezza antica che ha sostenuto e guidato i sardi nella loro millenaria storia.

Con la storia e la lingua sarda sono presenti le città, le località e i paesi sardi: con le feste e le sagre, i costumi e i riti. E le attività produttive, specie quelle legate alla campagna e all’agricoltura: con l’aratura e la semina, la fienagione,la mietitura e la trebbiatura, la raccolta delle ortaglie, la vendemmia e la panificazione. Ma anche la pesca: soprattutto del tonno. Il sussidiario rappresenta così per gli scolari del triennio delle elementari una vera e propria full immersione nelle cultura locale e nella sua economia.

Purtroppo questa ventata liberalizzatrice di lingua e cultura locale durò pochissimo: con il consolidarsi del regime fascista specie dopo l’assassinio di Matteotti, inizia a prevalere l’enfasi unificatrice, omologatrice e livellatrice tanto che fu avviata un’azione repressiva nei confronti degli alloglotti e, per quanto ci riguarda, della lingua e cultura sarda: fu vietato non solo l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee. Anzi, il Fascismo ben presto, ad iniziare dagli anni trenta, imboccata la strada dell’imperialismo e dell’autarchia, tenterà di cancellare il concetto stesso di civiltà regionale e di regione e abolirà l’uso del Sardo, in nome dell’italianità, minacciata a suo dire da tutto quanto era “locale”.

Sul’uso del Sardo abbiamo una vasta eco in una polemica scoppiata nel 1933 fra un certo Gino Anchisi, giornalista dell’Unione Sarda e il nostro grande poeta Montanaru, in occasione della pubblicazione dei suoi Sos cantos de sa solitudine. In un articolo Anchisi esortava Montanaru a scrivere in Italiano perché un poeta come lui aveva diritto a un pubblico più vasto. E concludeva affermando che la poesia dialettale era anacronistica, roba d’altri tempi e come tale andava relegata nel regno d’oltretomba.

Montanaru rispondeva, sullo stesso giornale, affermando che i rintocchi funebri per la fine dei dialetti, da qualunque parte venissero, erano per lo meno immaturi. Seguiva la replica dell’Anchisi che ribadiva l’anacronismo e la fine dei dialetti e della regione: Morta o moribonda la regione, è morto o moribondo il dialetto.

Scriverà Cicitu Masala: E’ morto il fascismo ma la lingua sarda, bene o male continuò a vivere. E quel sussidiario di Pantaleo Ledda, un vero e proprio frutto fuori stagione, rivisitato e depurato della retorica patriottarda e italocentrica del Fascismo, sarebbe ancora utile, anche per l’apprendimento della lingua sarda.

Nell’immagine: Sa pandela sarda, di Cici Peis

 

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Questo articolo è stato pubblicato sabato, 2 gennaio 2016 alle 10:09 e classificato in Interventi e Opinioni. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi inviare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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