Peppino Mereu:il poeta “maledetto”, il poeta socialista di FRANCESCO CASULA

PEPPINO MEREU:

Il poeta “maledetto”, il poeta socialista (1872-1901)*

di Francesco Casula

Nasce a Tonara (Nuoro) il 14 Gennaio 1872. Il padre, medico condotto del paese muore accidentalmente nel 1889 bevendo del veleno che aveva scambiato per liquore. Interrompe gli studi dopo la terza elementare –a Tonara non esistevano altre scuole e per proseguire gli studi avrebbe dovuto recarsi fuori dal paese- e diventa sostanzialmente un autodidatta: non si spiega diversamente la sua conoscenza del latino e della mitologia classica cui fa riferimento in alcune sue poesie.

Da giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie frequentando i poeti tonaresi più noti: Bachis Sulis e altri. A 19 anni e precisamente il 7 Aprile 1891 si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell’Isola, visse fra Nuoro e Cagliari, Osilo, Sassari, –i cui nomi figurano nelle date di alcune poesie-  dove conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare. Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabinersi/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. (Io non capisco perché/da noi ci sono i carabinieri/e non arrestano i bancarottieri).

Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu  diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l’uguaglianza: Senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettados, uguales (Senza distinzioni curiali/ dobbiamo essere figli di una stessa bandiera/:liberi, uguali, rispettati). Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, -proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista- Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/<mea culpa> sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende/. (Se si avvera quel terremoto/per cui sta pregando Giago Siotto/che anche i poveri potranno votare/potrò vedere, addolorati, gridare/<mea culpa>i vili printzipali/a dividere palazzi e terreni/).

Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo -che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione- Mereu mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).Il poeta il 6 Dicembre 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così a Tonara. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall’altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie “della morte”, dall’altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu, sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l’amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch’imbolare unu frastimu ebbia/a chie m’hat causadu custa rutta/vivat chent’annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta (per lanciare una sola maledizione/colui che è stato causa di questa mia disgrazia/viva cent’anni ma paralizzato/dall’epilessia e dalla gotta). Consumato dalla tisi, che candela de chera (come una candela di cera) muore l’11 marzo 1901 a soli 29 anni. 

La crisi economica e sociale della Sardegna di fine Ottocento

Soprattutto in seguito alla rottura dei trattati commerciali con la Francia (1887) e la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 –ricorda lo storico Carta-Raspi- erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.A ciò dobbiamo aggiungere –per capire il dramma che vivrà la Sardegna- il fiscalismo operato dal Governo del nuovo stato italiano nei confronti dell’Isola. Di tali “sofferenze” a più riprese parlerà Antonio Gramsci, fra l’altro scrivendone il 16 Aprile  1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo proprio “I dolori della Sardegna”.Nel cinquantennio 1860-1910 –scriverà- lo Stato italiano nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”? Proseguirà ricordando che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale –come aveva sostenuto e documentato il parlamentare sardo Enrico Carboni-Boy- ciascun abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più  di quello di regioni ricchissimequali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66). Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente “La Brigata Sassari” e pubblicato sempre nell’edizione piemontese dell’Avanti aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino oltre che con le tasse sproporzionate, con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde; con l’emigrazione dei lavoratori sardi –le forze più produttive- verso le Americhe: ben centomila lasciarono l’Isola; con l’allocazione di tutti i centri decisionali e di potere a Torino: ad iniziare dai Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie sarde e di alcune società minerarie i cui membri –sottolinea Gramsci- erano lautamente retribuiti.

A NANNI SULIS

1.

NANNEDDU meu,

su mund’est gai,

a sicut erat1

non torrat mai.

2.

Semus in tempos

de tirannias,

infamidades

e carestias.

3.

Como sos populos

cascant che cane,

gridende forte

«Cherimus pane».

4.

Famidos, nois

semus pappande

pane e castanza,

terra cun lande.

5.

Terra c’a fangu

Torrat su poveru

senz’alimentu,

senza ricoveru.

6.

B’est sa fillossera2,

impostas, tinzas,

chi non distruint

campos e binzas

7. .

Undas chi falant

in Campidanu

trazan3 tesoros

a s’oceanu.

8.

Cixerr’in Uda,

Sumasu, Assemene,

domos e binzas

torrant a tremene.

9.

E non est semper

ch’in iras malas

intrat in cheja

Dionis’Iscalas.

10.

Terra si pappat,

pro cumpanaticu

bi sunt sas ratas

de su focaticu.

11.

Cuddas banderas

numeru trinta,

de binu onu,

mudad’hant tinta.

12.

Appenas mortas

cussas banderas

non piùs s’osservant

imbreagheras.

13.

Amig’ a tottus

fit su Milesu,

como lu timent,

che passant tesu.

14.

Santulussurzu

cun Solarussa

non sunt amigos

piùs de sa bussa.

15.

Semus sididos

in sas funtanas,

pretende sabba

parimus ranas.

16.

Peus su famene

chi, forte, sonat

sa janna a tottus

e non perdonat.

17.

Avvocadeddos,

laureados,

bussacas buidas,

ispiantados

18.

in sas campagnas

pappana4 mura,

che crabas lanzas

in sa cresura.

19.

Cand’est famida

s’avvocazia,

cheres chi penset

in Beccaria? 5

20.

Mancu pro sognu,

su quisitu

est de cumbincher

tant’appetitu.

21.

Poi, abolidu

pabillu e lapis

intrat in ballu

su rapio rapis6.

22.

Mudant sas tintas

de su quadru,

s’omin’ onestu

diventat ladru.

23.

Sos tristos corvos

a chie los lassas?

Pienos de tirrias

e malas trassas.

24.

Canaglia infame

 

piena de braga,

cherent s’iscettru

cherent sa daga!7

25.

Ma non bi torrant

a sos antigos

tempos de infamias

e de intrigos

26.

Pretant a Roma

Mannu est s’ostaculu ;

Ferru est s’ispada

Linna est su baculu

27.

S’intulzu apostolu

De su segnore

Si finghet santu

Ite impostore!

28.

Sos corvos suos

Tristos, molestos

Sunt sa discordia

De sos onestos

29.

E gai chi tottus

Faghimus gherra

Pro pagas dies

De vida in terra

30.

Dae sinistra

Oltad’a destra,

e semper bides

una minestra.

31.

Maccos, famidos,

ladros, baccanu

faghimus, nemos

halzet sa manu

32.

Adiosu, Vanni,

tenedi contu,

faghe su surdu,

ettad’a tontu.

33.

A tantu, l’ides,

su mund’est gai

a sicut erat

non torrat mai.

traduzione

A  VANNI SULIS

1. Nanneddu mio, così va il mondo: com’era un tempo non sarà più.

2. Viviamo in tempi di tirannia, soprusi e carestia.

3. Ora il popolo sbadiglia come un cane affamato, gridando a gran voce: «Vogliamo pane».

4. E noi, affamati, mangiamo pane di castagne, terra con ghiande.

5. La terra in fango riduce il povero, che non ha alimen­ti né casa.

6. La fillossera, le imposte e la peste ci distruggono i campi e le vigne.

7. Le piene che si riversano nel Campidano, trasportano tesori al mare.

8. Il Cixerri in Uta, Elmas e Assemini case e vigne manda in rovina.

9. E non sempre, durante i violenti temporali si può rifugiare in chiesa Dionigi Scalas.

10. Ci si nutre di terra, per companatico ci sono le rate del focatico.

11. Quelle compagnie molto numerose e amiche del buon vino hanno cambiato colorito.

12. Sciolte queste compagnie, non si vedono più persone sbronze.

13. Amico di tutti era il Milese ora ne hanno paura e lo sfuggono.

14. Santulussurgiu e Solarussa non sono più amici del portafo­glio.

15. Siamo assetati, alle fontane, lottando per l’acqua, sembriamo rane.

16. Peggio ancora, la fame bussa insistentemente ad ogni porta e non perdona.

17. Avvocatucci, laureati, a tasche vuote e spiantati

18. Nelle campagne mangiano more, come capre magre lungo le siepi.

19. Quando è affamata, la categoria degli avvocati vuoi che pensi a Beccaria?

20. Neanche per sogno, il dilemma è quello di soddisfare tanto appetito.

21. Quindi, messe da parte carta e matita, entra in ballo il rapio rapis.

22. Cambiano i colori del quadro, e l’uomo onesto diventa ladro.

23. I corvi scellerati a chi li lasci? Pieni di perfidia e im­broglioni.

24. Canaglia infame piena di boria, vuole lo scettro e il co­mando.

25. Ma non tornerà agli antichi tempi d’infamia e di intrighi.

26. Litigano a Roma, l’ostacolo è grande; di ferro è la spada, di legno il bastone.

27. L’avvoltoio apostolo del Signore, si mostra santo, che impo­store!

28. I suoi corvi scellerati e molesti sono la discordia degli uomini onesti.

29. E così tutti facciamo guerra per i pochi giorni di vita.

30. Se da sinistra ti volti a destra vedi sempre la stessa mine­stra.

31. Scellerati, affamati, ladri, creiamo disordine e nessuno si opponga.

32. Arrivederci, Nanni, rifletti su questo, fai il sordo e fingi di non capire.

33. Perché, è chiaro, così va il mondo: com’era un tempo non sarà più.

 

DAE UNA LOSA ISMENTIGADA

1.

Non sias ingrata, no, para sos passos,

o giovana ch’ in vid’ happ’istimadu.

Lassa sas allegrias e ispassos

e pensa chi so inoghe sepultadu.

Vermes ischivos si sunt fattos rassos

de cuddos ojos chi tantu has miradu.

Para, par’ un’istante, e tene cura

de cust’ ismentigada sepoltura.

2.

A ti nd’ammentas, cando chi vivia

passaimis ridend’oras interas?

Como happ’ una trista cumpagnia

de ossos e de testas cadaveras,

fin’ a mortu mi faghent pauria

su tremendu silenziu ‘e sas osseras.

E tue non ti dignas un’istante

de pensare ch’ inog’ has un amante!

3.

Ben’ a’ custas osseras, cun anneos,

si non est falsu su chi mi giuraist,

e pensa chi bi sunt sos ossos meos,

sos ossos de su corpus ch’istimaist;

fattos in pruer, non pius intreos

coment’ e cand’ a biu l’abbrazzaist.

Non pius agattas sas formas antigas,

ca so pastu de vermes e formigas.

4.

Bae, ma cando ses dormind’ a lettu

una oghe ti dèt benner in su bentu,

su coro t’hat a tremer’ in su pettu

a’ cussa trista boghe de lamentu

chi t’hat a narrar : custo fit s’affettu,

custo fit su solenne jurasnentu?

Inoghe non ti firmas, lestra passas,

e a’ custa trista rughe non t’abbassas.

5.

Cando passas inoghe pass’umìle ;

t’imponzat custa pedra su rispettu,

ca so mortu pro te anima vile,

privu de isperanz’ e de affettu.

Dae custa fritta losa unu gentile

fiore sega e ponedil’ in pettu,

pro c’ammentes comente t’happ’amadu,

già chi tue ti l’has ismentigadu.

 

Traduzione:DA UNA TOMBA DIMENTICATA

1. Non essere ingrata, no, ferma i passi, o giovane che in vita ho amato. Lascia le allegrie e gli spassi e pensa che sono qui sepolto. Vermi schifosi si sono fatti grassi di quegli occhi che tanto hai guardato. Fermati, per un istante, e pensa a questa dimenticata sepoltura.

2. Ti ricordi, quando ero vivo e passavamo ridendo ore intere? Ora ho una triste compagnia di ossa e di teste morte, perfino da morto mi fa paura il tremendo silenzio degli ossari. E tu non ti degni un momento di pensare che qui hai un amante!

3. Vieni a questi ossari, con pene, se non è falso quello che mi giurasti e pensa che ci sono le mie ossa, le ossa del corpo che hai amato; diventati polvere, non più intere come quando da vivo le abbracciavi. Non trovi più le forme antiche, perché son  cibo di vermi e di formiche.

4 Va’, ma quando stai dormendo nel letto una voce ti verrà nel vento, il cuore ti tremerà nel petto a quella voce triste di lamento che ti dirà: «questo era l’affetto, questo era il solenne giuramento?». Qui non ti fermare, passa svelta, e a questa triste croce non ti chinare.

5. Quando passi qui passa umile: ti imponga questa pietra il rispetto, perché sono morto per colpa tua anima vile, privo di speranza e di affetto. Da questa fredda tomba un gentile fiore taglia e mettitelo in petto, perché ricordi come t’ho amata, dal momento che tu l’hai dimenticato. 

*Tratto da “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula, volume 1°, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011, Dolianova.

Peppino Mereu:il poeta “maledetto”, il poeta socialista di FRANCESCO CASULAultima modifica: 2015-01-06T06:15:39+01:00da zicu1
Reposta per primo quest’articolo