Villamassargia

Villamassargia 16 Gennaio ore 17 Aula Consiliare

 

Presentazione del romanzo di Giulio Angioni ASSANDIRA

 

Relazione di Francesco Casula

 

Qualche mese fa, parlando a Cagliari un noto critico letterario italiano ha sostenuto che ormai gran parte della letteratura odierna ma segnatamente il romanzo, sta assumendo un carattere di puro intrattenimento, di gioco, spettacolo: tanto che si parla di Festival del libro, cene con l’Autore e via via elencando. Senza peraltro possedere il brillante divertissement  di un Edoardo Sanguinetti (Il gioco dell’oca, romanzo pop del 1970) o l’aperto disimpegno politico di uno Elémire Zolla (Eclissi dell’intellettuale, 1961).

 

I romanzi di Angioni, pur piacevoli e divertenti, hanno ben altro spessore: per intanto –mi riferisco in modo particolare ad Assandira– è troppo facile, banale e scontato etichettarlo come romanzo giallo, noir: banale ma soprattutto riduttivo. E non solo perché difficilmente si può incapsulare e incatenare Angioni a un genere letterario o a qualche “ismo” tradizionale o a qualche ascendenza letteraria, sarda o italiana: caso mai può evocare scrittori di frontiera come Gregor Von Rezzori o ancor più come lo scrittore caraibico di lingua inglese Naipul Vidiadhar Surajprasad, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 2001. Ma perché nei suoi romanzi Angioni non dimentica di essere un antropologo, anzi cattedratico di antropologia, in una vita parallela a quella di scrittore. E si vede. Forse soprattutto in questo romanzo che ha per oggetto l’Identità, l’Identità stravolta, sotto forma della mascheratura. Come nel Sale sulla ferita c’era un altro motivo antropologico molto forte, quello del come si dà senso al mondo e a quello che accade, anche stravolgendolo. E a proposito di influenze, penso più a etnologi come Ernesto De Martino o a filosofi come Martin Heidegger.

 

       Ma veniamo al romanzo di cui parliamo stasera. Assandira parla di un agriturismo che deve far rivivere il passato agropastorale, con il protagonista, Costantino Saru, vecchio pastore in pensione, padre di Mario -il padrone e l’ideatore dell’agriturismo- che sulle prime recalcitra davanti al progetto. Un poco perché non trova nulla d’attraente nella vita del pastore, lui che pastore è stato per tanti anni, in decorosa povertà, segregato dal consorzio degli uomini. E anche un poco perché vede di malocchio il mettere in caricatura quella ch’è stata la sua seria, onesta vita di pastore. Ma poi cede, si adegua, e come tutti i neofiti e convertiti finisce persino coll’esagerare: indossa il costume etnico che da vero pastore non ha mai indossato, fa le sue apparizioni banditesche con la doppietta ad armacollo, ammannisce sapienti arrosti per le comitive festanti, impara perfino a dire tenchiù.

 

       Intorno al protagonista, al figlio e alla danese Grete, la sua compagna, i personaggi recitanti sono un professore malmostoso, esperto di pastoralismo, assunto come consulente di Assandira, che supervisiona e certifica il rispetto della cultura tradizionale e insieme la bontà della copia e  un assessore provinciale al turismo.

 

Ma un giorno scoppia un incendio in cui muore il figlio, –colpito alle spalle da un razzo che avrebbe dovuto animare rumorosamente una delle tante feste notturne dell’agriturismo-, rimane gravemente ferita la compagna danese di quest’ultimo, che per di più è incinta e dunque la sorte del nascituro è incerta. Bruciano vive svariate decine di animali. I carabinieri e la magistratura indagano.

 

Assandira è tutto una mascherata, un teatro, uno show: con il protagonista, Costantino Saru che indossa i gambali, i calzoni a sa sporta, la camicia senza colletto. Anche le pezze ai piedi devo mettermi di nuovo? chiede al figlio. No quelle no, -risponde- non c’è bisogno, le pezze ai piedi non si vedono e le calze nemmeno. E dunque non servono. Importante è solo quello che appare: Sembrare, Assandira era tutto un sembrare. E sembrare era tutto con caprette, la cavalla e il puledro, le galline e i conigli, le due scrofe e il cinghiale  e il cane fonnese da guardia.

 

Così Costantino ritorna a fare il pastore ma per finta. Se siamo una terra per turisti e noi amo una razza di pastori, dobbiamo essere i pastori ma per i turisti: gli ripete il figlio Mario Perché ai turisti piacciono le cose fatte così all’antica… Noi, com’eravamo, per loro siamo belli…Insomma, fingere, recitare in pro del turista, fare la parte del pastore, del pastore all’antica.

 

Così nella commedia si celebrano una serie incredibile di riti, esotici e arcaici, che una volta erano azioni quotidiane, serie e faticose. Come la mungitura, descritta minuziosamente nel capitolo su riportato, che diventa uno show, una recita per i signori e signore dell’agriturismo, che berranno il latte appena munto con la schiuma, la spuma calda e morbida che si forma nel recipiente negli spruzzi della mungitura, naturalmente, con il rispetto delle norme igieniche. Perché siamo nella modernità e nell’europa.

 

Con l’incendio dell’agriturismo il circo effimero di Mario e Grete ridotto a cenere e tizzoni.Una tragedia: Che pone fine a una commedia. Anche se c’è da chiedersi se la vera tragedia non fosse la commedia e se l’incendio in qualche modo non sia una catarsi, una liberazione da quell’oscena commedia. Tutta giocata sull’inganno, sulla finzione, sul fittizio, sul sembrare. Assandira infatti è una sorta di bengodi in cui sfaccendati turisti plaudono, gozzovigliano, fotografano,cercano un nuovo eden e si baloccano sotto le spoglie di un finto ovile in una Sardegna favolosa, quasi nuragica con annesse capanne di frasca, arrosti omerici e ettolitri di vino. Non importa se quella Sardegna pastorale, nella realtà, non c’è più, o comunque c’è di essa solo una pallida immagine.

 

Giulio Angioni in un suo libro del 1990, Tutti dicono Sardegna dedica un capitolo a “Tradizione e turismo”, al quale, si rifà Assandira. Giulio Angioni in un suo libro del 1990, Tutti dicono Sardegna dedica un capitolo a “Tradizione e turismo”, al quale, si rifà Assandira.

 

Lo stesso argomento è stato trattato, curiosamente, da Tarquinio Sini, noto soprattutto come pittore e caricaturista dai tratti rapidi ed essenziali (Sassari 1891- Cagliari 1943), in un romanzo dal titolo A quel paese… Romanzo moderno (ad imitazione di molti altri) per uso esterno, Ed. S.E.I. Cagliari 1929.

 

In esso Sini si diverte ironicamente a rivelare ai non sardi l’immagine di quella che essi ritengono sia la vera Sardegna, quella infestata da terribili banditi pronti a sparare e a uccidere, con indosso il classico costume sardo:“con la berretta infilata sulla testa che non ha mai conosciuto le forbici del coiffeur, il sottanino di orbace e le brache bianche… …i turisti davanti a questi ceffi, dai barboni arruffatti, passano da una emozione all’altra…chi viene in Sardegna in cerca di emozioni e prova tutto ciò può chiamarsi fortunato.”, scrive Sini. E questa è la Sardegna che vogliono i turisti. A tal punto che un maître d’albergo per rendere più verosimile l’esotismo impartiche al suo personale ordini perché erigano finte siepi di fichi d’india, finti nuraghi e anche altro. Ma ecco, testualmente cosa scrive il Sini: “dopo una notte insonne, una di quelle notti che portano consiglio,[il maître dell’albergo] impartisce ordini e contrordini al suo personale.

 

-Questa siepe di fichi d’india di qua! Quest’altra di là, più su più giù!

 

Questi asinelli? In ordine sparso: un po’ ovunque. Via fatemi sparire qual camioncino! Al suo posto un carrettino…bravo! Il somaro più rognoso. Adesso incominciamo ad andar bene! Il Nuraghe lassù: sulla collina al centro. Oh benissimo!…E il paesaggio sardo prende subito quel caratteristico aspetto della vera Sardegna, di quella Sardegna che tutti conoscono senza aver mai visto e che soltanto i trucchi del modernismo invadente tentano occultare”.

 

Ma manca ancora qualche cosa: ecco allora che “bisogna far passare qualche numeroso gregge da queste parti…”  afferma ancora il maître. “E dopo qualche istante… ecco il colore locale. E anche l’odore

 

“ La Sardegna –signori miei- dopo tanti anni si risveglia e senza lavarsi la faccia si rimette in cammino. Così la vogliono i poeti e i curiosi di là dal mare. Sia fatta la loro volontà!”.

 

E’ questa la conclusione, fra l’ironico e il melanconico e l’amaro, del romanzo di Sini. Siamo nel 1929 ma pare che le cose non siano cambiate granchè, almeno a leggere Assandira di Angioni. O no? 

 

Il tema affrontato da Angioni in Assandira è stato analizzato nelle Lettere dal carcere ma anche in altre opere da Gramsci. “Sì, le tradizioni popolari: le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche… le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio … le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927– che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”.

 

In altre opere Gramsci ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa molto seria. “Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, facendo sparire il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore”.

 

In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo “in contrasto con la società ufficiale“.

 

Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero “l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce, malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata,nella celebrazione di quei “valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le “operazioni  conservatrici e reazionarie”,  legando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “.

 

In altre lettere – per esempio in quelle del Novembre del 1912 e 26 Marzo del 1913 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”. E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo:  “ lassa su figu, puzzone”.

 

Ma il “Sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto solo sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna:” Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti, edizione piemontese del 13 Luglio 1919).

 

 

Villamassargiaultima modifica: 2009-01-22T12:39:49+01:00da zicu1
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