gramsci

Antonio Gramsci

 

di Francesco Casula

 

 

 

Presentazione

Antonio Gramsci, sicuramente il Sardo più rappresentativo del primo Novecento –insieme a Emilio Lussu e Grazia Deledda- è lo scrittore più letto nel mondo. Le sue opere sono state tradotte in tutte le lingue più importanti del pianeta. E ancora oggi si scrivono articoli e saggi su Gramsci in Giappone come nel mondo arabo, in America Latina come negli USA.

Le sue idee, profonde e originali, hanno travalicato i confini della sua parte politica –la sinistra- per parlare a tutti. Il suo infatti è un messaggio umanissimo che conquista a prescindere dalle ideologie e dalle appartenenze culturali. La sua biografia e la sua vita sfortunata ed eroica, commuove e affascina.

Di Gramsci rimane un grande e suggestivo patrimonio culturale –di elaborazione, di analisi e di riflessioni ma soprattutto di testimonianza di vita drammatica e di etica- che affonda le sue radici nella sua terra, la Sardegna, che in questo testo abbiamo cercato di documentare.

1. La Vita

Nasce ad Ales (Ca) il 22 Gennaio 1891. Frequenta il liceo classico “G. M. Dettori” a Cagliari, dove avrà come docente Raffa Garzia, gran cultore e conoscitore di tradizioni e di poesia popolare1, nonché direttore dell’Unione Sarda che gli inculcò la passione per gli studi filologici che riprenderà all’Università- vince una borsa di studio e frequenta la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino dove inizia a manifestare i suoi interessi per le ricerche sulla Lingua sarda e il proposito di laurearsi proprio in glottologia, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, un professore dalmata che conosceva bene il sardo.

Nel 1915 aderisce al Partito socialista, nel 1919 fonda –insieme a Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini- il settimanale “Ordine Nuovo”, rassegna di cultura socialista, dove teorizza e agita il tema dei Consigli operai capaci di diventare, in una situazione rivoluzionaria, i soviet italiani, sulla scia dei soviet che si erano affermati in Russia dopo la rivoluzione di Nikolaj Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilič Uljanov). “L’Ordine Nuovo” si fece così animatore nel 1919-20 del movimento di Consigli di fabbrica eletti da tutte le maestranze, movimenti teorizzati da Gramsci in una serie di scritti nei quali, accanto alla suggestione del modello “soviettista” è facilmente rintracciabile l’influenza del sindacalismo rivoluzionario di Sorel, che avrà tanta influenza sul conterraneo Emilio Lussu e sullo stesso Mussolini e che inizia a incontrare il consenso di operai e impiegati.

Di qui una concezione della dittatura proletaria che non privilegiava –scrive lo storico Paolo Spriano- né il partito né il sindacato, ma considerava indispensabile che lo stato operaio da costruire si fondasse su istituzioni come i Consigli, diretta emanazione dei lavoratori e strumento della democrazia diretta e di base.

Partecipe della battaglia dell’estrema sinistra –le sue critiche al moderatismo riformista e al parlamentarismo del Psi furono citate da Lenin come esemplari- nel Gennaio del 1921 concorse a dar vita, insieme con il gruppo ordinovista, a una scissione del Partito socialista fondando il Partito comunista d’Italia, pur in una posizione subordinata rispetto alla leadership allora indiscussa di Amedeo Bordiga.

Nel 1922 “Ordine Nuovo” diventa quotidiano e Gramsci ne è il Direttore. A Maggio viene inviato a Mosca dove entra a far parte dell’Esecutivo dell’Internazionale. Ben presto però le sue condizioni di salute –che sono state sempre precarie- peggiorano a tal punto da costringerlo a ricoverarsi in una casa di cura dove conosce Giulia Schucht, la sua futura moglie. Intanto la situazione in Italia sta precipitando; il Fascismo, dopo la Marcia su Roma (28 Ottobre) è al Governo. Nei primi mesi del 1923 la maggior parte dei capi comunisti vengono arrestati dalla polizia: Gramsci si salva perché è a Mosca ma anche contro di lui viene spiccato un mandato di cattura.

Eletto nel 1924 deputato al Parlamento nella Circoscrizione del Veneto, potrà rientrare in Italia e si stabilisce a Roma, dove nel Maggio pronuncia alla camera dei deputati un discorso contro il disegno di legge sulle associazioni segrete presentato da Mussolini e da Alfredo Rocco. Il suo discorso è attentamente seguito e continuamente interrotto dai fascisti e dallo stesso Mussolini. Tra il Giugno del ’24 e il Gennaio del ’25 cerca di organizzare la protesta popolare e parlamentare per il delitto Matteotti e interviene ancora in Parlamento contro Mussolini.  Intanto nel Gennaio del ’26 partecipa al 3° Congresso nazionale del PCI preparato clandestinamente e tenuto a Lione. Le sue tesi riportano un’affermazione nettissima: i voti a suo favore raggiungono il 90,8%.

Bordiga, la cui linea politica fino a quel Congresso era stata sempre vincente riporta solo il 9,2% dei voti.

Nel frattempo a Mosca è in pieno svolgimento la lotta per la successione a Lenin. Si fronteggiano Stalin (pseudonimo di Josif Vissarionovič) e Lev Trotzkij (pseudonimo di Lejba Bronstein).

 Gramsci invia al Comitato centrale del PCUS una lettera per sottolineare l’enorme pericolo di queste lotte interne. Togliatti, che sta a Mosca, non approva i contenuti della lettera, soprattutto per quanto atteneva alla critica nei riguardi di Stalin e della maggioranza bolscevica e la blocca senza farla giungere a destinazione. Gramsci gli manifesta, in modo netto e secco, la sua disapprovazione. Nello stesso Ottobre del 1926 sta elaborando alcune tesi sulla Questione meridionale e si propone di pubblicare una rivista ideologica, quando l’emanazione delle leggi eccezionali da parte del governo fascista consiglia i suoi compagni, che lo sanno in pericolo, a suggerirgli l’emigrazione. Ma la sera dell’8 Novembre 19262 all’uscita dalla Camera dei deputati, è arrestato dalla polizia, nonostante godesse dell’immunità parlamentare e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, in assoluto e rigoroso isolamento, quindi confinato nell’Isola di Ustica. Ritorna in carcere dopo un mandato di cattura spiccato dal Tribunale di Milano.

Dopo circa due anni di carcere “preventivo” il 4 Giugno 1928 viene pronunziata la sentenza che lo condannava a 20 anni 4 mesi e 5 giorni di reclusione –oltre a 200 lire di ammenda- dal Tribunale speciale istituito dal Governo fascista per “cospirazione contro lo stato, organizzazione della guerra civile, incitamento all’insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo, istigazione all’odio di classe e attività sovversiva”.

Il Pubblico Ministero, Michele Isgrò, sardo (e…non per niente! aveva chiesto per lui 25 anni, 7 mesi e 6 mila lire di multa. Allo stesso Isgrò e non a Mussolini, verrà attribuita questa cinica e feroce espressione contro Gramsci: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”.

Verrà incarcerato nella Casa penale di Turi (Bari) dove le sue già malferme condizioni di salute si aggraveranno ulteriormente.

Colpito da emorragia cerebrale morirà nella clinica Quisisana a Roma il 27 Aprile 1937. Proprio il giorno della sua morte sarebbe dovuto rientrare in Sardegna, a Santulussurgiu, dove aveva studiato da ragazzino. Solo Carlo, il fratello che viveva a Milano, è presente al funerale insieme a Tatiana Schucht, la cognata che di nascosto era riuscita a sottrarre a sottrarre alle autorità fasciste le 2400 pagine dei 32 Quaderni scritti dal ’29 al ’35.

1)      Raffa Garzia, fra l’altro, pubblicherà nel 1917, per la casa editrice Poligrafici Riuniti di Bologna una Raccolta di 1000 mutetus dal titolo “Mutetus cagliaritani

2)      E’ Gramsci stesso a riferirlo in una Lettera dal carcere a Tania del 19-12-1926 : in questi testuali termini: […]“Arrestato l’8 sera alla 10.30 e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 Novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio; le lenzuola erano già adoperate, formicolavano gli insetti più diversi, non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la <Gazzetta dello Sport…” […]

2. La famiglia

Antonio Gramsci sposa Julija (<Giulia>, <Julka>) Schucht nata a Ginevra nel 1896 e discendente da una famiglia di origine scandinava. La conosce a Mosca nel 1922, in una casa di cura dove era stato ricoverato poco dopo il suo arrivo. Dalla loro unione nacquero Delio e Giuliano.

Il padre di Gramsci, Francesco non era sardo: veniva da Gaeta, ma le sue origini erano greco-albanesi. Abbandonati gli studi universitari, vinse un concorso nell’Amministrazione dello stato e venne assegnato all’Ufficio del registro di Ghilarza, dove conosce Giuseppina Marcias, figlia dell’esattore delle tasse di Terralba, che sposerà  nel 1883, nonostante l’ostilità della sua famiglia.

Avranno sette figli: Gennaro, Grazietta, Emma, Antonio, Mario, Teresina e Carlo. Dopo pochi anni la famiglia dovette trasferirsi ad Ales prima e a Sorgono poi dove Gramsci frequenta l’asilo infantile delle suore ma non la scuola elementare a causa di un ulteriore e forzato trasferimento della famiglia a Ghilarza quando aveva ancora sette anni.

Nei primi mesi del 1898 il padre Francesco viene inquisito nella sua qualità di pubblico funzionario e poiché erano emerse alcune irregolarità contabili e l’ammanco di una piccola somma nella gestione dell’Ufficio del Registro, venne sospeso dall’impiego e dallo stipendio. In seguito a questa dolorosa circostanza emerge con forza la figura, forte, attiva e coraggiosa della madre Peppina Marcias.

Ricorderà in seguito Teresina, la più piccola delle sorelle, a cui Gramsci dal carcere invierà numerose e struggenti lettere: “furono degli anni terribili per tutti, ma soprattutto per mia madre. Zia Grazia ci aveva assicurato il tetto1 ma dovevamo nutrirci e poi bisognava pagare gli avvocati per la difesa di papà. Noi eravamo molto piccoli, soprattutto io e Carlo che trascorrevamo lunghe ore, dimenticati da tutti, tenendoci per mano spauriti. Mia madre lavorava sempre; aveva una macchina da cucire Singer con la quale confezionava camicie da uomo, sapeva cucinare molto bene e teneva pensionati per i pasti; così riusciva a raggranellare almeno lo stretto necessario per vivere”.

Alle volte alla sera non c’era da cenare per tutti e allora la mamma diceva a me e a Carlo: “se andrete a letto, da bravi, senza mangiare, vi do cinque centesimi. Noi accettavamo e ci addormentavamo felici col soldo sotto il cuscino, ma al mattino dopo era sparito”.

Il padre Francesco, poco dopo la sospensione dall’impiego, era finito nelle carceri di Oristano: la corte di Appello l’aveva condannato a 5 anni, 8 mesi e 22 anni di reclusione.

I figli vennero tenuti all’oscuro: Antonio Gramsci conoscerà la verità solo a distanza di tempo e sarà per lui un grave trauma che lo porterà vieppiù a chiudersi in se stesso.

Nota

1)Non avendo una casa di proprietà sono ospitati, al loro rientro da Sorgono a Ghilarza, dalla zia Grazia.

3. Il tema di Gramsci alla licenza elementare

La sorella Teresina ci ha conservato il tema finale1 composto per gli esami della licenza elementarre, che è poi l’unico posse­duto. Questo il titolo: “Se un tuo compagno benestante e molto intelli­gente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli ri­sponderesti?”

Ed ecco lo svolgimento, sotto forma di lettera, del 15 luglio 1903:

“Carissimo amico,  poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stai bene di salute. Un punto solo mi fa stupire te; dici che non riprenderai più gli studi perchè ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di fare lo stesso, perchè è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anzichè rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perchè se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non po­trò mai abbandonare gli studi che sono l’unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perchè, come sai, la mia famiglia non è certo ricca di beni di fortuna.

Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per stu­diare, ma molte volte, neanche per sfamarsi.

Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale.

Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per cam­parti, ma bada al proverbio “l’ozio è il padre dei vizi”. Chi non stu­dia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rove­scio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillantissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli dà sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare.

Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo pro­posito. Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni pos­sibili. Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti.

Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal

Tuo aff.mo Antonio”.

Il testo del tema è interessante per comprendere l’idea che Gramsci da giovanissimo, aveva della cultura ma anche come documento di un giovane aperto e capace di fare dell’ironia e dell’umorismo, in contrasto con l’idea che spesso si è data di un Gramsci chiuso e sempre serioso. Sarà in seguito proprio il tema della cultura e del sapere oggetto privilegiato della sua riflessione e delle sue analisi: servirà per capire e insieme trasformare quel mondo “grande e terribile” con cui dovrà fare i conti da adulto. 

1)      In  L’altro Gramsci di Giovanni Nieddu, Gia editrice, Cagliari 1990 pag.15

4. Gramsci e la Sardegna

“La Sardegna –scrive Eugenio Orrù- non è per Gramsci una mera espressione geografi­ca e neppure soltanto il luogo degli affetti, un luogo della memoria, l’infanzia della politica. La Sardegna è espressione di soggettività, di lingua, di cultura, di storia di un popolo distinto, che vive nella storia pluralistica dell’Italia e deve esistere, esserci, come il Mezzogiorno continentale, come la Sicilia, con una pre­senza paritaria nel contesto unitario dello Stato italiano [cfr. il saggio del ’26 sul­la “Questione meridionale” e i Quaderni 1, 14, 19, 1929, 1932-’35, ibidem].

La lingua, la cultura, la storia della Sardegna sono ricchezza e vanno studiate e vissute. Non è dunque solo tattica, ma è frutto di strategia, di convinzione politi­ca radicata l’appello -ispirato da Gramsci- dell’Internazionale contadina, indi­rizzato il 21 settembre 1925 al V Congresso di Macomer del Partito Sardo D’Azione, appello peraltro preceduto dalla lettera del settembre 1923 all’esecuti­vo del P.C.d’L, dove egli parla di “Repubblica federale degli operai e dei conta­timi”. Ecco, anche da qui un’ulteriore interlocuzione con Gramsci: da qui si può desumere un concetto di autonomia come autogoverno, come democrazia e insieme un concetto di identità non come separazione e chiusura, ma come pro­getto e affermazione di sé, nel dialogo, nella partecipazione, nell’apertura all’Italia  e al mondo1.

“Dalla Sardegna –ricorderà il suo compagno di studi e di partito, Palmiro Togliatti, il leader massimo dell’allora Partito comunista italiano, commemorandolo nel 1947 nel Municipio di Cagliari in occasione del decimo anniversario della sua morte- venne ad Antonio Gramsci il primo impulso, la vocazione iniziale della Sua vita; ciò che egli aveva visto, osservato, sofferto in Sardegna, diventò elemento fondamentale per la elaborazione del Suo pensiero politico, spinta decisiva alla esplicazione della Sua attività pratica di dirigente della classe operaia e dei lavoratori italiani”.

Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere- ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica.

“Gramsci –ricorda l’ex parlamentare Battista Columbu in un appassionato intervento2 in occasione del 50° anniversario della morte- fu sardo di nascita; sardo perché amò la sua terra d’immenso amore, l’am0 così com’essa è, con la sua bellezza semplice, con le sue asperità, con i suoi contrasti, con le sue sofferenze, con le sofferenze del popolo sardo che egli conobbe, comprese, condivise”.

Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il  16 Aprile  1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo “I dolori della Sardegna”. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”3.

E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911- ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”.

In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)4 .

Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente La Brigata Sassari e pubblicato sempre nell’edizione piemontese dell’Avanti aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino. “Non siamo –commenta lo storico sardo Federico Francioni- di fronte all’uso di una parola ad effetto, in quanto Gramsci dimostra di essere convinto dell’esistenza di un colonialismo esercitato ai danni dell’Isola5.

“Colonia, colonialismo –continua Francioni- ecco due termini, potremmo dire quasi due parolacce che gli storici, gli intellettuali sardi, fatte poche, pochissime eccezioni, hanno sempre cercato di rimuovere, come dire di esorcizzare6.

Eppure di colonialismo si trattava –o si tratta ancora oggi?-

con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde;

con l’esasperata e sproporzionata pressione fiscale che il parlamentare l’avvocato Enrico Carboni-Boy nella sua relazione al Congresso tenuto dai Sardi a Roma, aveva ben illustrato, quantificato e documentato;

con la politica doganale –in seguito alla rottura dei trattati commerciali con la Francia-  che aveva privato i prodotti tradizionali sardi degli sbocchi di mercato;

con l’emigrazione dei lavoratori sardi –le forze più produttive- verso le Americhe: ben centomila lasciarono l’Isola;

con l’allocazione di tutti i centri decisionali e di potere a Torino: ad iniziare dai Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie sarde e di alcune società minerarie i cui membri –sottolinea Gramsci- erano lautamente retribuiti.

1)In Il pensiero dominante, Gramsci oltre il suo tempo, a cura di Eugenio Orrù e Nereide Rudas, Tema ed. Cagliari 1999, pag. 9.

2)In La questione meridionale, atti del Convegno di studi, Cagliari 23-24 ottobre 1987, Pubblicazione del Consiglio regionale della Sardegna, pag. 378-379.

3)In Antonio Gramsci- Scritti 1915-1921. Nuovi contributi a cura di Sergio Capriogli :I Quaderni de “Il Corpo”-1968, pagg.103-104.

4)In Atti del Primo Congresso Regionale Sardo tenuto in Roma in Castel Sant’Angelo dal 10 al 15 Maggio 1914, promosso e organizzato dall’Associazione fra i Sardi in Roma. Coop. Tipografica Ma nunzio, Roma, 1914, pagg.143-144.

5)In La questione meridionale, atti del convegno di studi, op. cit. pag. 125.

6)Ibidem pag.125.

5. Gramsci e la Lingua sarda

Le Lettere dal carcere scritte dopo il suo arresto sono dirette per la gran parte ai familiari: alla moglie e ai figli, alla cognata, alla madre, alle sorelle e al fratello Carlo. Solo alcune sono indirizzate agli amici.

Per la prima volta furono pubblicate in un volume uscito nel 1947 che ne comprendeva 218. Nel 1965 un nuovo volume ne comprenderà 428, delle quali 119 fino ad allora inedite. Esse risultano un grandioso e insieme toccante documento autobiografico testimonianza umana culturale ed etica. Esse oltre a costituire un documento di insostituibile interesse storico e letterario rappresentano un’avvincente testimonianza psicoantropologica, una vita ricca di eventi significativi e persino drammatici. Eccone una1 diretta alla sorella Teresina in cui affronta la questione della Lingua sarda.

1) In Lettere da carcere, di Antonio Gramsci a cura di Sergio Caprifoglio ed Elisa Fubini. Introduzione e note di Sebastiano Vassalli, Giulio Einaudi editore, 1965. 

Carissima Teresina,

mi è stata consegnata sola pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e che conteneva la foto­grafia di Franco1. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto e te ne faccio tutte le mie congratula­zioni; mi manderai, è vero? anche la fotografia della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito mol­to che Franco, almeno dalla fotografia, rassomigli po­chissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paolo2 e alla sua stirpe campidanese e forse addirit­tura maurreddina3: e Mimì a chi somiglia? Devi scri­vermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Fran­co mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispia­ceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse libe­ramente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambi­ni. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé4, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino piú lingue, se è pos­sibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca5, fatta solo di quelle poche fra­si e parole delle vostre conversazioni con lui, pura­mente infantile; egli non avrà contatto con l’ambien­te generale e finirà con l’apprendere due gerghi6 e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza.

 Ti racco­mando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontanea­mente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro. Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno avuto la febbre spagnola7; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per esem­pio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre8, come era naturale e necessario, ma rapida­mente è andato apprendendo anche l’italiano e can­tava ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una e dell’al­tra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone»9, ma specialmente le zie si sono opposte energicamente[…].

Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini

Nino

Note presenti nel testo

1. Teresina Gramsci Paulesu ebbe quattro figli: Franco, Mim­ma (« Mimí »), Diddi e Marco,

2. Paolo Paulesu, marito di Teresina Gramsci.

3. Maureddu si chiama chi abita il Campidano, cioè la pianura tra i golfi di Oristano e di Cagliari e,   in generale, le regioni meri­dionali della Sardegna.

4. Effettivamente l’idioma sardo viene considerato dagli stu­diosi come una lingua a sé stante, con vicende storiche sue pro­prie che ne fanno un caso singolare e autonomo nell’ambito delle lingue romanze

5. Cioè limitata nel lessico («povera») e perciò incompleta (« monca »).

6. Si dice « gergo » un linguaggio convenzionale, quale può for­marsi all’interno di gruppi sociali isolati.

7. Forma influenzale a carattere epidemico, comparsa per la prima volta in Europa nel 1918.

8. Cioè il russo.

9. « Lascia il fico, o uccello » (in sardo).

               In questa lettera del 26 Marzo del 1927,scritta alla sorella Teresina dal carcere, giustamente notissima e super citata, Gramsci rivela una serie di intuizioni formidabili sull’importanza, sull’utilità, sul ruolo e la funzione della lingua sarda, specie per quanto attiene allo sviluppo del bambino e allo stesso apprendimento dell’italiano.

                Per intanto ammette che “è stato un errore non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo”. Si tratta di un errore oltremodo diffuso nella cultura e nell’intera scuola italiana, ancora oggi  ma soprattutto nel passato.

                       Un errore e un pregiudizio che deriva da lontano: basti pensare ai primi Programmi della Scuola italiana ,impostati a partire dall’Unità e dalla Legge Coppino del 1867 secondo una logica statoiatrica e italocentrica, finalizzata  a creare una supposta coscienza “ unitaria “  un cosiddetto spirito “ nazionale “, capace di superare i limiti – così erroneamente si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente divisa, differenziata e composita sul piano storico, linguistico e culturale.

                        Così, tutto ciò che anche lontanamente sapeva di locale – segnatamente la storia e la lingua– fu rigidamente espunto ed espulso dalla scuola, represso e censurato, messo a tacere e bandito o comunque marginalizzato nella vita sociale.

                        Questo processo continuerà e anzi si accentuerà enormemente nel periodo fascista, in cui si tentò addirittura di cancellarla e decapitarla la lingua sarda come pure la storia e in genere quanto atteneva al locale, allo specifico, al particolare: elementi tutti che avrebbero –secondo l’ideologia fascista– attentato all’unità nazionale dello Stato, concepito in modo rigidamente monolingue e monoculturale.

                         Ebbene Gramsci, proprio in questo periodo storico e in questa temperie culturale ed ideologica ha il coraggio di andare controcorrente, anche su questo versante: “ non imparare il sardo da parte di Edmea – sostiene  – ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia….è bene che i bambini imparino più lingue…. ti raccomando di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire : tutt’altro.

      Il grande intellettuale sardo esprime in questa lettera una serie di posizioni sulla lingua materna, che i linguisti e i glottologi nonchè gli studiosi delle scienze sociali: psicologi come pedagogisti, antropologi come psicanalisti e persino psichiatri avrebbero in seguito articolato, argomentato e rigorosamente dimostrato come valide, in modo inoppugnabile.

                          Ovvero che il Bilinguismo, praticato fin da bambini, sviluppa  l’intelligenza e costituisce un vantaggio intellettuale non sostituibile con l’insegnamento in età scolare di una seconda lingua, ad esempio l’inglese.  

      Nell’apprendimento bilingue entrano in gioco fattori di carattere psico- linguistico di  grande portata formativa, messi in evidenza da appropriati e rigorosi studi e ricerche.

     Tutto ciò, soprattutto con il Bilinguismo a base etnica – proprio il nostro caso di sardi – che, come sostiene uno dei massimi studiosi e sostenitori, J. A. Fisman1 non è da considerarsi un fatto increscioso da correggere e da controllare ma una condizione che agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo cognitivo e relazionale, base di potenzialità linguistiche-coscienziali straordinariamente estese, tanto che l’educazione bilingue ha delle funzioni che vanno al di là dell’insegnamento della lingua.                                                                   Ovvero che la lingua materna, la cultura e la storia locale hanno un ruolo fondamentale e decisivo  nello sviluppo degli individui, soprattutto dei giovani,  partendo “dall’ambiente naturale in cui sono nati “:

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gramsciultima modifica: 2007-06-20T22:10:00+02:00da zicu1
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