Gli 11 anni di Pontificato di Papa Francesco.

Gli 11 anni di Pontificato di Papa Francesco.
di Francesco Casula
Il 13 marzo del 2013 veniva eletto papa il gesuita Bergoglio, che non a caso sceglieva il nome di “Francesco”: nomen omen! Fin da subito ha voluto imprimere alla Chiesa cattolica un radicale cambio di rotta, trovando all’interno stesso della Chiesa, ma soprattutto fra la gerarchia sorde ampie e corpose resistenze alla sua “rivoluzione”: di qui lo “scontro” sotterraneo (ma non troppo). Schematizzando (e necessariamente semplificando) a confrontarsi (o combattersi?) sono due Chiese contrapposte: quella di Bergoglio e quella rappresentata emblematicamente dai “bertoniani”. Insomma la Chiesa dei poveri e la Chiesa “costantiniana”: una dialettica, un confronto, uno scontro che ha attraversato la sua storia millenaria. E che nella storia carsicamente emerge in alcuni periodi, per inabissarsi in altri. Da quando con l’imperatore Costantino appunto, inizia a mutare “pelle”, DNA: trasformandosi gradatamente, da Chiesa come Comunità di base, povera e solidale, perseguitata e martirizzata, in Chiesa gerarchica, di potere e di dominio: di potere economico e politico. Nel Medioevo al fine di giustificare e “legittimare”, tale potere “temporale”, dei papi e della Chiesa – evidentemente hanno la coda di paglia – gli storici “cristiani” fra l’altro “inventarono” un documento secondo cui l’imperatore Costantino con un decreto avrebbe donato a Papa Silvestro i territori di Roma e del Lazio. Ci avrebbe poi pensato Lorenzo Valla, umanista brillante e colto, a demistificare e sbugiardare tale falso, tale documento apocrifo, con le armi finissime e scientifiche della filologia, della paleografia e dell’archeologia, con un celebre opuscolo ” De falso credita et ementita Constantini donatione” del 1440. Ma non solo su questo versante muta la Chiesa: nata per annunziare il messaggio evangelico, diventa “altro”: si dota e costruisce un apparato dottrinale e teologico, di norme, precetti, divieti, dogmi, riti, culti: che di fatto tendono a “sostituire” il messaggio originale cristiano o, comunque, lo “declassano”, lo diluiscono e, talvolta, lo stravolgono, facendolo di fatto evaporare. Il “fedele” è tale più per l’osservanza della “pratica religiosa” e cultuale o della lettera della dottrina, quasi fosse un’ideologia astratta, che per la “pratica etica” e i comportamenti morali. Il Papa gesuita invece si ispira al messaggio evangelico primigenio: dandone l’esempio e iniziando a praticarla, la povertà, evocata dalla scelta del nome: Francesco appunto. Così ai sontuosi appartamenti papali preferisce la modesta foresteria di Santa Marta, dove consuma i pasti insieme agli altri. Di contro la Chiesa “costantiniana” rappresentata in modo esemplarmente paradigmatico da Bertone che – già potente Segretario di Stato – abita in un sontuoso e lussuoso e superaccessoriato attico. Papa Francesco non riduce la communio e la vita stessa della Chiesa alla struttura ecclesiastica e all’estabilishement: anzi. Di qui la sua apertura agli extracomunitari, ai migranti, alle altre confessioni religiose. Per lui infatti il contenuto della fede non è la gerarchia ma l’evento di Cristo vivente che essa custodisce. E la Chiesa per lui è chiamata a servire tutti gli uomini, segnatamente gli ultimi e quelli che chiama con un lessico molto pregnante, gli scartati, e non solo i fedeli. Il suo servizio non è un mestiere e, ancor meno una carriera, con privilegi ed emolumenti principeschi, come troppo spesso lo è stato nel passato (e lo è ancora) per molti ecclesiastici: che Bergoglio denuncia con reprimende severe. Per lui è un ministero evangelico e profetico di salvezza che si dispiega nella situazione storica concreta in cui vive e opera, accettando e incrociando il frastuono dell’esistenza, occupandosi degli uomini e delle donne, quali sono, e non solo delle loro anime. Egli non è il capo di una setta religiosa: è il fratello e il padre di tutti, ma soprattutto dei diseredati, dei dannati della terra: anche se, formalmente, non appartengono alla Chiesa. Di qui la simpatia, l’apertura e il sostegno deciso e convinto alle problematiche ambientali (penso alla recente enciclica Laudato si’) e ai nuovi processi di liberazione, in sintonia con i soggetti emergenti delle trasformazioni sociali: alle donne che pur continuando ad essere discriminate, iniziano ad acquisire potere e ruoli; alle culture e lingue, un tempo distrutte che rivendicano la propria identità; alle comunità indigene che rivendicano le loro visioni del mondo autoctone non soggette alla colonizzazione occidentale; alle comunità contadine che si mobilitano contro il capitalismo selvaggio. Di qui soprattutto la sua battaglia permanente e assillante per la Pace, il disarmo, la lotta alle fabbriche di armi e di morte. Di qui la sua proposta di “negoziati” per interrompere “l’inutile strage” e la “gigantesca carneficina” (per utilizzare le locuzioni di Benedetto XV a proposito della Prima Guerra mondiale). O il suo accorato appello perché in Palestina si ponga fine al macello in atto., A tali aperture si oppone la Chiesa “costantiniana”, di fatto preconciliare, più legata alla religio che alla religiosità, ma soprattutto non disposta a rinunciare ai privilegi di casta e al potere.
 
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 10:15
Invio
 
 
 
 
 
 
Scrivi a Francesco Casula
 

Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro

La mia Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro su Prima Guerra mondiale e dintorni. (nessi su sutzu per chi non l’avesse vista e sentita).
di Francesco Casula

Quando scoppia il primo grande conflitto mondiale nel 1914, dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria il 28 agosto a Sarajevo, l’Italia non entra in guerra: il Parlamento, composto soprattutto da liberali, socialisti e cattolici, era neutralista.
La stragrande maggioranza era infatti contrario alla guerra: i liberali, per motivi politici ed economici, perché ritengono la guerra strumento di distruzione di persone e cose; i socialisti, per motivi ideologici e politici, perché nella guerra, qualunque Stato vinca, a essere macellati sono i proletari, essi sostengono invece la lotta di classe e la rivoluzione proletaria non la guerra; i cattolici per motivi dottrinali e religiosi: solo Dio è padrone della vita.
A fronte della neutralità del Parlamento il re Vittorio Emanuele III (noto come Sciaboletta) con il ministro degli esteri Sidney Sonnino e il Primo ministro Antonio Salandra sfiancano il Parlamento, per un intero anno, costringendolo alla fine a cambiare opinione e a entrare in guerra il 24 maggio del 1915.
Dopo lo scoppio della guerra, il re con il ministro degli esteri e il capo del governo hanno colloqui sia con le potenze dell’Intesa che con gli Imperi centrali. Ebbene l’Austria si dichiara disponibile a cedere all’Italia, se solo fosse rimasta neutrale, le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata dal quotidiano “La Tribuna”, aggiungerà che “era disponibile a cedere le terre irredente e parecchio di più”.
La Stampa e i Media si guardarono bene dal darne notizia, anche dopo la desecretazione della trattative. Solo don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, a più riprese ne parlò e ne scrisse in “Lettera ai giudici” (1965), denunciando che quella guerra si poteva evitare. Fu inascoltato.
L’Italia nonostante tale disponibilità dell’Austria, entrerà in guerra, con la stragrande maggioranza della popolazione contraria. Le punte di diamante dei guerrafondai e bellicisti sono i nazionalisti, i futuristi (per il loro capo, Marinetti, la guerra è “la sola igiene del mondo”) i dannunziani, Mussolini con “Il popolo d’Italia”. A favore della guerra si dichiarano anche i grandi Giornali e Quotidiani ma soprattutto la grande industria metallurgica e meccanica che vede nella guerra un’occasione formidabile per fare immani profitti con la vendita delle armi e le sicure commesse da parte dello Stato.
Una guerra “inutile strage” e “gigantesca carneficina”, come denuncerà il Papa Benedetto XV nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis. Con 10 milioni di morti. Per non parlare dei dispersi e mutilati. Cui la Sardegna, in proporzione agli abitanti pagherà il fio più alto: 13.602 morti.
Quella guerra che Emilio Lussu nel suggestivo libro testimoniale “Un anno sull’Altopiano” descriverà mirabilmente. Lui che da “convinto e chiassoso interventista” si arruolerà volontario ma al fronte ne sperimenterà l’atrocità l’assurdità e l’insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che manderanno al macello i soldati; con i miliardi di pidocchi e di topi; con la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti.
In cambio delle migliaia di morti – scriverà il grande storico sardo Raimondo Carta Raspi – ci sarà il retoricume delle medaglie de dei ciondoli. Ma la gloria delle trincee non avrebbe sfamato la Sardegna, perché le patacche, anche se seminate, non produrranno grano.
E la guerra di oggi in Crimea? Ha analogie con quella del Quindici/Diciotto? Sì. Questa come quella, continua ad essere voluta dagli Stati (Europei e America) ma non dai popoli; continua ad essere sostenuta dai Grandi Giornali e, soprattutto dalle industrie belliche per ingrassarsi con ciclopici profitti. Esattamente come nella Prima Guerra mondiale.
E la nostra Isola? Gravata dal 65% delle servitù, basi e poligoni militari per l’esercitazione e la sperimentazione di armi degli eserciti di mezzo mondo. E noi sardi? A produrre armi munizioni e bombe nella RWM di Domusnovas.
Da Isola di pace a Isola di guerra.

La mia Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro su Prima Guerra mondiale e dintorni. (nessi su sutzu per chi non l’avesse vista e sentita).

di Francesco Casula

Quando scoppia il primo grande conflitto mondiale nel 1914, dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria il 28 agosto a Sarajevo, l’Italia non entra in guerra: il Parlamento, composto soprattutto da liberali, socialisti e cattolici, era neutralista.
La stragrande maggioranza era infatti contrario alla guerra: i liberali, per motivi politici ed economici, perché ritengono la guerra strumento di distruzione di persone e cose; i socialisti, per motivi ideologici e politici, perché nella guerra, qualunque Stato vinca, a essere macellati sono i proletari, essi sostengono invece la lotta di classe e la rivoluzione proletaria non la guerra; i cattolici per motivi dottrinali e religiosi: solo Dio è padrone della vita.
A fronte della neutralità del Parlamento il re Vittorio Emanuele III (noto come Sciaboletta) con il ministro degli esteri Sidney Sonnino e il Primo ministro Antonio Salandra sfiancano il Parlamento, per un intero anno, costringendolo alla fine a cambiare opinione e a entrare in guerra il 24 maggio del 1915.
Dopo lo scoppio della guerra, il re con il ministro degli esteri e il capo del governo hanno colloqui sia con le potenze dell’Intesa che con gli Imperi centrali. Ebbene l’Austria si dichiara disponibile a cedere all’Italia, se solo fosse rimasta neutrale, le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata dal quotidiano “La Tribuna”, aggiungerà che “era disponibile a cedere le terre irredente e parecchio di più”.
La Stampa e i Media si guardarono bene dal darne notizia, anche dopo la desecretazione della trattative. Solo don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, a più riprese ne parlò e ne scrisse in “Lettera ai giudici” (1965), denunciando che quella guerra si poteva evitare. Fu inascoltato.
L’Italia nonostante tale disponibilità dell’Austria, entrerà in guerra, con la stragrande maggioranza della popolazione contraria. Le punte di diamante dei guerrafondai e bellicisti sono i nazionalisti, i futuristi (per il loro capo, Marinetti, la guerra è “la sola igiene del mondo”) i dannunziani, Mussolini con “Il popolo d’Italia”. A favore della guerra si dichiarano anche i grandi Giornali e Quotidiani ma soprattutto la grande industria metallurgica e meccanica che vede nella guerra un’occasione formidabile per fare immani profitti con la vendita delle armi e le sicure commesse da parte dello Stato.
Una guerra “inutile strage” e “gigantesca carneficina”, come denuncerà il Papa Benedetto XV nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis. Con 10 milioni di morti. Per non parlare dei dispersi e mutilati. Cui la Sardegna, in proporzione agli abitanti pagherà il fio più alto: 13.602 morti.
Quella guerra che Emilio Lussu nel suggestivo libro testimoniale “Un anno sull’Altopiano” descriverà mirabilmente. Lui che da “convinto e chiassoso interventista” si arruolerà volontario ma al fronte ne sperimenterà l’atrocità l’assurdità e l’insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che manderanno al macello i soldati; con i miliardi di pidocchi e di topi; con la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti.
In cambio delle migliaia di morti – scriverà il grande storico sardo Raimondo Carta Raspi – ci sarà il retoricume delle medaglie de dei ciondoli. Ma la gloria delle trincee non avrebbe sfamato la Sardegna, perché le patacche, anche se seminate, non produrranno grano.
E la guerra di oggi in Crimea? Ha analogie con quella del Quindici/Diciotto? Sì. Questa come quella, continua ad essere voluta dagli Stati (Europei e America) ma non dai popoli; continua ad essere sostenuta dai Grandi Giornali e, soprattutto dalle industrie belliche per ingrassarsi con ciclopici profitti. Esattamente come nella Prima Guerra mondiale.
E la nostra Isola? Gravata dal 65% delle servitù, basi e poligoni militari per l’esercitazione e la sperimentazione di armi degli eserciti di mezzo mondo. E noi sardi? A produrre armi munizioni e bombe nella RWM di Domusnovas.
Da Isola di pace a Isola di guerra.

L’ Astensionismo? Lo producono i Partiti e il sistema elettorale maggioritario

L’ASTENSIONISMO? LO PRODUCONO I PARTITI
e il sistema elettorale maggioritario.

di Francesco Casula

L’astensionismo c’è sempre stato. E’ un dato fisiologico. Ma era minimo: soprattutto nella repubblica incipiente, dopo il crollo del Fascismo e la cacciata dei tiranni sabaudi, ma anche nell’intero trentennio (1946-1976) quando la partecipazione elettorale era elevatissima e stabile.
Ancora nelle elezioni politiche del 1976 l’astensionismo è stato del 6,6%. Aumenterà enormemente invece nel ventennio 1979-99: sia nelle elezioni politiche che in quelle regionali e locali e, persino nelle consultazioni referendarie.
Ma ancor più si accentuerà, arrivando a percentuali colossali (oggi siamo a circa il 50%) nell’ultimo ventennio.
Le cause: due in modo particolare: la trasformazione del sistema politico e dei Partiti e l’introduzione dei sistemi elettorali basati sul maggioritario.
I Partiti, segnatamente negli ultimi venti/trent’anni si sono ridotti a ectoplasmi. A comitati elettorali (quando non comitati d’affari). Lontani dai bisogni della gente e dei territori: specie dei più periferici. Viepiù omologhi fra di loro. Tanto che qualche anno fa i due “poli” di centro-destra e di centro-sinistra si scambiarono reciproche accuse di plagio dei programmi. E negli ultimi anni si sono addirittura organicamente alleati, prima con il governo Monti e poi con quello di Draghi: in nome, si è sostenuto,della governabilità e della stabilità, considerata alla stregua di una vera e propria finalità politica.

A tutto ciò aggiungasi i sistemi elettorali – a livello statale come a livello regionale – i vari Porcelli (nomen omen!) basati sostanzialmente sul maggioritario, la cui fascistissima legge elettorale Acerbo,del 1923, in confronto, era ultrademocratica!
Sistemi elettorali – come quello attualmente ancora in vigore in Sardegna per le elezioni regionali – che producono disastri e devastazioni infliggendo colpi mortali alla democrazia; alla stessa libertà elettorale; al diritto all’ esistenza politica delle minoranze “fastidiose” per l’establishment: che lasciano senza rappresentanza istituzionale decine e decine di migliaia di elettori: com’è successo nel 2014 con Michela Murgia, Pili, Devias e Sanna (con più di 130 mila sardi senza rappresentanza in Regione, il 17% ), nel 2019 con Maninchedda, Pili e Andrea Murgia (con più di 56 mila, circa l’8%) e oggi con Soro e Chessa (con più di 70 mila, 9.6%) .
Abbiamo così cittadini di serie A: il cui voto conta. E cittadini di serie Z, il cui voto non conta.

Possiamo tollerare simil infamia? E per quanto tempo ancora? E poi ci si stupisce se il 50% degli elettori, semplicemente a votare non vanno? E saranno loro gli irresponsabili e non chi produce tale vergogna?

GLI SVARIONI E/O IMPRECISIONI SU ELEONORA D’ARBOREA

GLI SVARIONI E/O IMPRECISIONI SU ELEONORA D’ARBOREA
 OIP
di Francesco Casula
Continuo a sentire e leggere: la Giudicessa Eleonora d’Arborea. Anche recentemente da parte di importanti personaggi politici. E’ vero: ma a livello di comunicazione, rivolta a un pubblico generico, simile locuzione (Eleonora giudicessa) può ingenerare equivoci e confusione. L’ascoltatore (o il lettore) comune) sentendo/leggendo “Giudicessa”, a cosa pensa? A un semplice magistrato? Per evitare simili equivoci, a mio parere occorre sempre dire e scrivere “Eleonora d’Arborea Giudicessa-regina. I Giudicati sono infatti dei veri e propri Regni: sos Rennos sardos: con ordinamenti propri, un territorio, frontiere, accordi interni, rapporti esterni e esteri. C’è di più: in tutte le iscrizioni e i sigilli appare la scritta: Iudex sive rex (Giudice ossia re). Investito della summa potestas (somma potestà): non cognoscens superiorem (che non riconosce uno superiore). Certo di tratta dei “regni” particolari e specifici: intanto erano regni non patrimoniali (cioè di proprietà del sovrano), come erano quelli del medioevo italiano ed europeo feudale, ma superindividuali (o subiettivi). Ma soprattutto il giudice-re governava sulla base di un patto con il popolo (chiamato bannus consensus). Scrive a questo proposito lo storico medievista Francesco Cesare Casula: “Contrariamente agli stati continentali dell’epoca, i giudicati sardi non erano patrimoniali ma super-individuali (o subiettivi) “dipendenti dalla volontà del popolo – precisa F. Cesare Casula – il quale, per mezzo dei suoi procuratores, concedeva al giudice il potere (bannus) e acconsentiva a sottomettersi a lui in cambio del rispetto delle proprie prerogative (consensus). In caso di violazione del vincolo, il re spergiuro poteva essere barbaramente ucciso dallo stesso popolo in rivolta, come in effetti capitò più volte nel corso della storia giudicale” 1. In altre parole il re governava sulla base di un patto con il popolo: il potere veniva infatti concesso al Giudice-re (con l’intronizzazione) in cambio del rispetto delle prerogative popolari, tramite la Corona de Logu, ovvero il Parlamento. Di qui dei regni che possiamo definire semidemocratici: scelti con un sistema misto: da una parte vige l’ereditarietà dall’altra l’elezione da parte della della Corona De Logu. Il re-giudice governava sulla base di un patto con il popolo: se non lo rispettava poteva essere detronizzato e persino – come ho già detto – legittimamente giustiziato dal popolo stesso. Sempre a proposito del Giudicato-Regno, basta riferirsi al Proemio alla Carta De Logu in cui Eleonora stessa precisa che la Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla:”pro conservari sa Justicia et in bonu, pacificu e tranquillu istadu dessu pobulu dessu RENNU nostru…dessa terra nostra e dessu RENNU de Arbarèe”. Certo si potrà persino obiettare che Eleonora pur chiamandosi giudicessa, ovvero regina, non fu regina regnante ma reggente (il figlio maggiore Federico Doria-Bas, non aveva la maggiore età e lei governò in sua vece) ma si tratta di una distinzione da azzeccagarbugli, di formalismo giuridico (peraltro del diritto di quei tempi). Ma la sostanza non cambia.
 
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 18:47
Invio
 
 
 
 
 
 
Scrivi a Francesco Casula
 

Ricordando Giovanni Maria Angioy a 216 anni dalla sua morte

Ricordando Giovanni Maria Angioy a 216 anni dalla sua morte
di Francesco Casula
1. La figura di Giovanni Maria Angioy La sua figura – scrive lo storico sassarese Federico Francioni (1)- nella storia del suo tempo è stata a lungo oggetto di controversie, a volte di esaltazioni, a volte di accuse, spesso condizionate da un dibattito politico contingente, che prendevano particolarmente di mira sue indecisioni e «doppiezze». Oggi invece è necessario cercare di capire nel profondo le ragioni dei dubbi ed anche delle ambiguità che, ad un primo esame, sembrano le fasi e le caratteristiche piú marcate della biografia angioyna. Ma è indispensabile, prima di tutto, indagare sulle origini delle lotte antifeudali con le quali giunsero a maturazione istanze comuni sia al mondo delle campagne che ai gruppi della nascente borghesia isolana. È essenziale, inoltre, non perdere di vista il quadro in cui vanno collocati gli avvenimenti sardi: il drammatico scenario dominato dal crollo dell’ancien régime, dalle attese quasi messianiche di emancipazione delle masse rurali, dall’azione di élites audaci ed intransigenti e dagli «alberi della libertà». Solo così sarà possibile rimettere in discussione stereotipi – in larga parte ancora vigenti – su una Sardegna tagliata fuori, sempre e comunque, da tutte le grandi correnti rivoluzionarie, politiche, culturali ed intellettuali dell’Europa moderna. 2. Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza. La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del «riformismo» sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la pratica forense. Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente, oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme. Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri. 3. Angioy e i moti del 1795. I moti del 1795 – scrive ancora Francioni – a differenza di quelli del 1793, che in genere erano stati guidati da gruppi interni ai villaggi, sono preceduti da un’intensa attività di propaganda non solo antifeudale ma anche politica. Infatti insieme alle ribellioni nelle campagne si darà vita ai cosiddetti “strumenti di unione” ovvero a “patti” fra ville e paesi – per esempio fra Chiesi, Bessude, Brutta e Cheremule il 24 novembre 1795 e in seguito fra Bonorva, Semestene e Rebeccu nel Sassarese. In essi le persone giuravano di “non riconoscere più alcun feudatario”. Lo sbocco di questo ampio movimento – autenticamente rivoluzionario e sociale perchè metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne – fu l’assedio di Sassari – scrivono gli storici Lorenzo e Vittoria Del Piano (2). Con cui si costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. I capi, il giovane notaio cagliaritano Francesco Cilocco e Gioachino Mundula arrestarono il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre mentre i feudatari erano riusciti a fuggire in tempo rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi. Dentro questo corposo movimento antifeudale, di riscatto economico, sociale e persino culturale-giuridico dei contadini e delle campagne si inserisce il ”rivoluzionario” Giovanni Maria Angioy. 4. Angioy “Alternos”. Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro. L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano – scrive Vittorio Angius “in sotterranee oscure fetentissime carceri”. 5. L’Angioy a Sassari Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta – persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero“de si bogare sa cadena da-e su tuiu” come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni. Angioy non poteva non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà cercò di giustificare l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere. Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile” (3). Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari. 6. L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno… Il 2 Giugno 1896 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui” (4). Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari, cercarono di impedirgli il passaggio, sicchè egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno giunse in vista di Oristano. Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici. Sardi ancora una volta pocos, locos y male unidos: l’antica maledizione della divisione pesa ancora su di loro. Questa volta per qualche piatto di lenticchie. Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di Alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”. Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come risulta dal suo Memoriale (5)- non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola”(6). Riferimenti bibliografici 1. Federico Francioni, Giommaria Angioy nella storia del suo tempo, Editore Della Torre, Cagliari 1985 2. Lorenzo e Vittoria Del Piano, Giovanni Maria Angioy e il periodo rivoluzionario 1793-1812,Edizioni C. R, Quartu, 2000 3. Natale Sanna op. cit. 4. Lorenzo e Vittoria Del Piano op. cit. 5. II testo integrale in francese del memoriale angioiano, con il titolo Mémoire sur la Sardaigne, si trova in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari, 1967, sp. pp. 181-182. Di esso aveva già fornito un sunto J. F. Mimaut, Histoire de Sardaigne ou la Sardaigne ancienne et moderne considérée dans ses loìs, sa topographìe, ses productìons et sa moeurs, t. II, Paris, 1825, pp. 248-253. Tradotto in italiano si può leggere in A. Boi, Giommaria Angioy alla luce di nuovi documenti, Sassari, 1925 (v. sp. p. 80). 6. Antonello Mattone, Le radici dell’autonomia. Civiltà locale ed istituzioni giuridiche dal Medioevo allo Statuto speciale, in La Sardegna cit., 2, pp. 19-20; vedi, anche La Sardegna di Carlo Felice cit., pp. 194-196; C. Ghisalberti, Le costituzioni «giacobine» 1796-1799, Milano, 1973.
 
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 10:55
Invio
 
 
 
 
 
 
Scrivi a Francesco Casula
 

SA DIE INTERNATZIONALE DE SA LIMBA NADIA

SA DIE INTERNATZIONALE DE SA LIMBA NADIA
di Francesco Casula
Oe 21 de freàrgiu si festat sa “Die internatzionale de sa limba materna”,detzidia dae sa Cunferèntzia Generale de s’Organizatzione de sas Natziones Unidas po s’Educatzione, sa Scièntzia e sa Cultura (UNESCO) in su mese de donniassantu de su 1999. Dae su 2000 s’afestat cad’annu, po amparare e balorizare sa diversidade linguìstica e culturale e duncas su blilinguismu e su plurilinguismu. Bene. Sa limba sarda arrischiat de si nche morrere. Non prus faeddada in familia (ca babos e mamas non l’imparant prus a sos figios/as, ca issos/as etotu gasi semper mancu l’ischint), s’unicu mediu pro l’imparare oe a sos pitzinnos est s’iscola. Chi duncas depet diventare bilingue. Comente bilingue depet diventare totu sa sociedade sarda. Cun sa parificatzione giurìdica e pràtica de su Sardu cun s’Italianu e, duncas cun s’ufitzializatzione. Ma custu est su puntu, (hic Rhodus hic salta) sa limba sarda non podet èssere ufutzializada (ne imparada in sas iscolas) sena unu istandard, lassende sa dialetizatzione de oe. E, sena istandard, e sena ufitzializatzione sa limba sarda est destinada a si nche mòrrere o a èssere cunfinada in carchi furrungone, in carchi festa folcloristica. O impreada pro nàrrere brullas, carchi paristòria o, si nono, paràulas malas, e frastimos. Deo so cumbintu chi oe, subra de s’istandardizatzione, pro lu nàrrere a sa latina: ”non est discutendum”. Ca ischimus bene chi sena s’unificatzione de s’iscritura, peruna limba si podet imparare in sas iscolas, si podet impreare in sos ufìtzios, in sos giornales, in sas televisiones, in sas retes informàticas, in sa publicidade, in sa toponomastica. Sena ufitzializatzione, pro nàrrere, in sos litzeos o in sas Universidades sardas, “cale Sardu” imparamus? E in sos giornales e in sas televisiones, chi allegant a totu sos Sardos, ite impreamus? Calincunu narat: faghimus duos istandard: unu pro su logudoresu e unu pro su campidanesu. Semus giai male unidos e cherimus galu ateras divisiones? E, in prus: pro ite duos e non tres, bator, deghe, 365, cantas sunt sas biddas sardas e su “dialetto”, s’allegatzu issoro? E in ue agabbat su campidanesu e in ue cumintzat su logudoresu? E esistit unu campidanesu e unu logudoresu o bi nd’at medas? Sa LSC no andat bene? La curregimus, la megioramus, la irrichimus: ma dae issa depimus mòere. Ca est s’istandard chi tenimus, a pustis de trinta annos de brias e de cuntierras subra de custa chistione. E sos “dialetos locales”? Chi sunt una richesa manna, non b’at perìgulu chi si nche mòrgiant? Est a s’imbesse: cun una limba ”istandardizada”, una limba chi siat una “cobertura” pro totus, est prus fatzile chi sigant a campare; sena limba istandart si nche morint peri issos.
 
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 11:16
Invio
 
 
 
 
 
 
Scrivi a Francesco Casula
 

Fratelli d’Italia è un Inno massonico e non della repubblica italiana.

Fratelli d’Italia è un Inno massonico e non della repubblica italiana.
di Francesco Casula
La locuzione “Fratelli d’Italia” è una gravissima e inaccettabile manomissione e falsificazione storica. Più correttamente occorre chiamare l’Inno “Fratelli massoni d’Italia”. Il giovane Goffredo Mameli, massone, con quell’inno voleva rivolgersi ai suoi “fratelli muratori” e non agli italiani. Siamo nell’autunno del 1847, quando Mameli genovese ma di origine sarda (il padre Giorgio, cagliaritano, è comandante di una squadra della flotta del Regno di Sardegna) allora ventenne studente e patriota scrive l’Inno che sarà poi musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro, anch’esso massone. Siamo alla vigilia della Prima guerra di indipendenza e il giovane ingenuamente e in modo sprovveduto e spericolato, si lancia in una serie di affermazioni, storicamente false. Possiamo capire il suo afflato bellicista e retorico ma non la manomissione della storia. Che c’entrano infatti con l’Unità d’Italia gli Scipioni o i combattenti della Lega lombarda, i Vespri siciliani, Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze, o Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci? Si tratta di sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas. Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su “Il Manifesto” del 26 febbraio 2011 :”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”. Ma tant’è: questo sciocchezzaio viene ancora riproposto oggi. Di più: l’Inno massonico dopo essere stato “in sonno” per 71 anni nel 2017 è diventato l’Inno ufficiale della repubblica italiana, suscitando il plauso entusiasta della massoneria che attraverso il gran maestro Stefano Bisi ha scritto: “Ora ci sentiamo ancor di più Fratelli d’Italia e canteremo l’inno orgogliosamente, come abbiamo sempre fatto, durante le nostre tornate rituali e le manifestazioni pubbliche”. Il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, infatti plaude con soddisfazione alla notizia che dopo 71 anni di provvisorietà finalmente il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli, sia adesso a tutti gli effetti l’inno ufficiale della Repubblica Italiana. “Per noi, “Fratelli d’Italia”, al di là delle questioni burocratiche, e’ stato sempre l’inno che abbiamo portato impresso nel cuore e nella mente, perché in esso c’è la storia d’Italia e del Risorgimento che sfociò nell’Unità. Scritto dal massone Goffredo Mameli e musicato dal fratello Michele Novaro, esso fa vibrare da sempre l’animo dei liberi muratori e dei cittadini italiani” Amen!
 
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 10:49
Invio
 
 
 
 
 
 
Scrivi a Francesco Casula
 

La fine dei Savoia è festa per noi sardi

La fine dei Savoia è festa per noi sardi
di Antonangelo Liori
Pare non si debba parlare male dei morti, e forse è vero. Ma la morte di Vittorio Emanuele deve essere festeggiata in Sardegna in quanto fine di una dinastia criminale che ha massacrato in modo cinico e spietato noi sardi. Avidi, ignoranti e senza scrupoli, i Savoia hanno perpetrato per 3 secoli un tentativo di genocidio del nostro popolo. Se avessimo un presidente della Regione con le palle, dovrebbe insinuarsi nella causa fatta dai Savoia per riavere indietro i loro gioielli dallo Stato italiano perché quei gioielli devono essere acquisiti dalla Nazione sarda a parziale risarcimento dei danni subiti dal nostro popolo. L’amico Francesco Casula ha scritto sull’argomento un bellissimo libro dal titolo: “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”. Tiranni che depredarono la Sardegna, la disboscarono, imposero folli balzelli, legge delle chiudende, fucilazioni di massa dove persero la vita donne vecchi e bambini. Possiamo accodarci al funerale del rampollo di questi cialtroni? E meno male che questo decerebrato di figlio – Emanuele Filiberto – ha fatto figlie femmine estinguendone quanto meno il ramo maschile. E’ morto Vittorio Emanuele? In corrias de fogu andede…
 
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 17:54
Invio
 
 
 
 
 
 
Scrivi a Francesco Casula
 

“Sardegna, Ebrei e «razza italiana»”

  · 
 
“Sardegna, Ebrei e «razza italiana»”
di Emilio Lussu
Pubblico la parte più interessante di un articolo di Lussu sugli Ebrei, il fascismo e la Sardegna.
Chissà cosa ne penserebbe oggi il capitano dei rossomori sugli ebrei ieri brutalmente vittime vittime e oggi altrettanto brutalmente carnefici.
Notare una curiosità: a un certo punto gli “scappa”, quasi dal sen fuggita, la locuzione di “Una Repubblica sarda indipendente”. Per la verità anche in un’altra occasione utilizzò questa espressione, nell’opera “Diplomazia clandestina”. Noi invece sappiamo che Lussu è un federalista convinto non un indipendentista.
L’articolo è corposamente intriso dell’ironia lussiana, o meglio, come lui stesso riconoscerà, “Di quell’ironia che è sarda. E’ sarda atavicamente…”.
Giustizia e Libertà, 21 ottobre 1938
Le Journal des Débats pubblica, tra il serio ed il faceto, uno scritto in cui si attribuisce a Mussolini il proposito di relegare in Sardegna tutti gli ebrei italiani. Con i tempi che corrono, queste cose vanno prese sempre sul serio. Come sardo, nato in Sardegna e rappresentante di sardi, io mi considero direttamente interessato […] .
Così stando le cose, è troppo giusto che gli ebrei italiani vengano a finire in Sardegna: essi sono i nostri più prossimi congiunti. Per conto nostro, noi non sentiamo che pura gioia. Essi saranno accolti da fratelli. La famiglia semitica uscirà rafforzata da questa nuova fusione. Semitici con semitici, ariani con ariani.
Mussolini va lodato per tale iniziativa. Anche perché rivela, verso noi sardi, un mutato atteggiamento.
Nel 1930, davanti a un giornalista e uomo politico francese che gli aveva fatto visita, pronunziò parole e propositi ostili contro l’isola fascisticamente malfida, e affermò che avrebbe distrutto la nostra razza, colonizzandoci con migliaia di famiglie importate da altre regioni d’Italia. Egli mantenne la parola e popolò le bonifiche sarde di migliaia di romagnoli e di emiliani.
Ma, a difesa della razza sarda, vigilavano impavide le zanzare, di pura razza semitica. L’immigrazione ariana è stata devastata dalla malaria e ora non ne rimane in piedi che qualche raro esemplare superstite.
Con gli ebrei, sarà un’altra questione. Essi saranno i benvenuti per noi e per le zanzare fedeli, le quali saranno, con loro, miti e discrete come lo sono con noi.
Sardi ed ebrei c’intenderemo in un attimo. Come ci eravamo intesi con gli ebrei che l’imperatore Tiberio aveva relegato nell’isola e che Filippo II di Spagna scacciò in massa. Quello fu un gran lutto per noi.
Ben vengano ora, aumentati di numero. Che razza magnifica uscirà dall’incrocio dei due rami!
Per quanto federalista e autonomista, io sono per la fusione dei sardi e degli ebrei. In Sardegna, niente patti federali. I matrimoni misti si faranno spontanei e la Sardegna sarà messa in comune. E quando saremo ben cementati, chiederemo che ci sia concesso il diritto di disporre della nostra sorte. L’Europa non vorrà negare a noi quanto è stato accordato ai Sudeti. Una Repubblica Sarda indipendente sarà la consacrazione di questo nuovo stato di fatto. Il presidente, almeno il primo, mi pare giusto debba essere un sardo, ma il vice-presidente dovrà essere un ebreo. Modigliani può contare sul nostro appoggio che gli sarà dato lealmente. Penso che dovremmo respingere la garanzia delle grandi potenze mediterranee e svilupparci e difenderci da noi stessi. Se gli ebrei d’Europa e d’America vorranno accordarci la decima parte di quanto hanno speso in Palestina, è certo che la Sardegna diventerà, in cinquant’anni, una delle regioni più ricche e deliziose del mondo, la cui cultura non avrà riscontro che in poche nazioni avanzate.
Ciò non toglie che i nostri rapporti non possano essere buoni, inizialmente, anche con l’Italia ariana; ma, da pari a pari. Vi sarà uno scambio di prodotti, e noi potremo, data la ricchezza delle nostre saline, rifornire l’Italia ariana, specie di sale, che ne ha tanto bisogno.
Naturalmente, non accoglieremo tutti gli ebrei italiani. Ve ne sono parecchi che, per noi, valgono gli ariani autentici. Il prof. Del Vecchio [2], per esempio, noi non lo vogliamo. E vi saranno parecchi ariani di razza italica che noi terremo a fare semitici onorari. Problemi tutti che risolveremo presto e facilmente.
V’è la questione del re-imperatore che, come si sa, ha fatto la sua fortuna come re di Sardegna. Si ha l’impressione che il decalogo razzistico sia stato compilato anche per lui. Non esiste infatti nessuna famiglia, in Italia, meno italiana della famiglia reale: essa non appartiene più alla razza italica pura. Di origine gallica, i matrimoni misti l’hanno corrotta a tal punto che il sangue straniero vi è in predominio palese. E il principe ereditario, figlio di una montenegrina, è sposato con una belga-tedesca; una principessa con un tedesco, e un’altra con uno slavo-bulgaro. Ariani ma non italiani. La futura repubblica sarda sarà magnanima anche col re di Sardegna. Lo accolse l’isola, fuggiasco dall’invasione giacobina, lo accoglierà ancora una volta, profugo dal dominio ariano-italico. L’isola dell’Asinara gli sarà concessa in usufrutto fino all’ultimo dei suoi discendenti. E potrà tenervi corte, liberamente, a suo piacere.
Colpisce invece che, per restare alla stessa fase storica, sia pressoché assente nella nostra memoria collettiva la deportazione di qualcosa come 50.000 sardi, a seguito della spedizione di Tiberio Sempronio Gracco nel 237 a.C. o, secondo altri, a seguito di quella del nipote omonimo nel 175 a.C. Sono i “sardi venales”, sardi di poco valore economico, perché per la loro quantità fecero crollare il prezzo degli schiavi.
Perché in effetti la rimozione di quella lontana deportazione di 50.000 sardi fa compagnia all’oblio pressoché totale della deportazione di circa 290 sardi, tra politici ed ebrei, e di circa 12.000 internati militari sardi nei lager nazisti. E si trattava nella stragrande maggioranza di giovani. Una enormità di gente nostra allora e oggi. Fino a pochi anni fa, questa realtà restava totalmente sconosciuta ai più e, nel migliore e raro dei casi, il nome di una via in qualche nostro paese serbava il ricordo ormai smemorizzato.

Cicitu Masala, i Partiti Italiani e Lussu.

Cicitu Masala, i Partiti Italiani e Lussu.
di Franceco Casula
Cicitu Masala si iscrisse al PSI agli inizi degli anni ’60 per uscirne subito dopo, nel 1964, seguendo l’amico Lussu nel Partito socialista di unità proletaria. Questo Partito nacque in seguito alla scissione del PSI, accusato di aver tradito gli ideali socialisti, dopo l’ingresso nel Governo di centro-sinistra, voluto da Nenni e guidato dal democristiano Aldo Moro. Nello PSIUP fa parte del Comitato regionale: ma per poco tempo. Inizia infatti a muovere forti critiche alla forma-Partito e ai Partiti italioti in genere, per il loro rapportarsi con la Sardegna in forme di colonialismo politico e culturale.. “Presi coscienza – scriverà – che la scissione era stata un’operazione di vertice e, anche e soprattutto, che la dirigenza sarda dello PSIUP (purtroppo tutti figli e nipoti politici di Lussu) nella quasi totalità, altro non era che la filiale isolana della fabbrica politica italiota, cioè si limitava a importare nell’Isola i manufatti politici prodotti in Continente: insomma una grave forma di centralismo burocratico, di colonialismo politico-culturale, senza nessun approfondimento né della Questione sarda né della grande lezione del sardismo lussiano”. Scrive dunque una lettera a Lussu. Eccone alcuni scampoli:” I padroni del Partito, cioè i baroni delle tessere, hanno adottato una tattica adoperata in Sardegna già nel periodo dei Nuraghi: i cacciatori nuragici avevano scoperto che, riunendosi in gruppo, potevano cacciare meglio, cioè potevano procurarsi maggior cibo, nei territori di caccia. Naturalmente i moderni cacciatori, a differenza dei clan nuragici, non usano le clave ma le tessere. Esse le tessere contano più di qualunque corretta ideologia…esse le tessere procurano ai baroni un maggior peso e un maggior potere…dentro le riserve di caccia del Partito – continua la lettera – di necessità i clan devono darsi battaglia fra di loro, litigare insomma, per il maggior cibo, su futili pretesti ideologici e senza comprensibili motivazioni politiche: prima si stabilisce di essere contro e poi si inventano le motivazioni per cui si è contro. Così l’ideologia diventa aria fritta, nebbia, catrame e il Partito stesso diventa un cane che si morde la coda. Insomma questi baroni delle tessere fanno come il figlio Giove col padre saturno: per paura di essere divorati dal padre (il Partito), essi i figli espropriano il potere egualitario di tutto il Partito, cioè si divorano il padre. E non basta. I padroni del Partito, oltre a uccidere il padre, ammazzano anche la madre, la Sardegna, distrutta dalla logica del centralismo burocratico italiota. Caro Lussu – conclude Masala – c’è veramente del marcio in Danimarca!”. Lussu rimase molto male: Masala voleva distruggere, ammazzare la sua creatura prediletta: lo PSIUP sardo. Lussu, rispondendo a Masala che voleva portare al mattatoio tutti gli psiuppini sardi, afferma che li vorrebbe tutti in Consiglio regionale… Ormai il dissenso fra i due è totale, almeno per quanto atteneva al Partito. Masala riscrive a Lussu un’altra lettera che servirà a aumentare il solco profondo che ormai li separa, non solo in merito al Partito ma anche su altre questioni importanti. Scrive Masala: 1.Lo PSIUP in Sardegna come tutti gli altri Partiti italioti, è funzionale allo Stato accentratore; 2. L’Italia è uno Stato ma non una Nazione, mentre la Sardegna è una Nazione ma non è uno Stato; 3. La cosiddetta Autonomia è una perfetta Eteronomia; 4. L’esperienza sarda dimostra che lo stato, comunque esso sia è un nemico. Lussu risponde in modo secco e acre, quasi indispettito: in merito allo Stato ma non solo. Il modo in cui rievochi lo Stato – scrive Lussu – fa pensare che tu sia con gli anarchici non con Marx. Altrettanto secca è la nuova lettera di Masala:” A pensarci bene – scrive – l’ultimo e più felice stadio di una società comunista è l’anarchia, cioè una società di liberi e uguali, senza governanti e governati, senza dominatori e senza dominati, senza vincitori né vinti. Per conto mio – prosegue Masala – non sono per l’anarchia borghese ma per l’etnia egualitaria, cioè per una comunità etnica che produce beni materiali e culturali da distribuire in parti uguali. Se è vero come è vero che la proprietà privata ha creato il codice per legalizzare e sacralizzare le disuguaglianze, allora è vero che per desacralizzare la proprietà, per decodificare lo Stato è necessario ritornare alle etnie egualitarie. Inoltre Masala, pur sapendo che Lussu come una malabestia odiava il separatismo, conclude la lettera affermando che: ”A pensarci proprio bene l’Italia non è la nostra madrepatria ma è la nostra matrigna e non è più una donna giovane e bella, con la corona in testa, come appare nelle carte bollate postrisorgimentali, ma è una vecchia che puzza, non c’è quindi da addolorarci molto se l’etnia sarda comincia a prendere le distanze da questa salma”. A questo punto la polemica epistolare fra Lussu e Masala si interrompe. Anche perché in una ultima, provocatoria e “cattiva” lettera Masala ricorda a Lussu alcune posizioni del passato che a suo dire sarebbero in contraddizione con quelle del presente. In modo particolare un articolo contro le leggi antiebraiche in Italia, pubblicato in Giustizia e Libertà del 21-10-1940, in cui il cavaliere dei Rossomori aveva parlato di Repubblica sarda indipendente. Nonostante le scaramucce epistolari rimarrà comunque intatta la stima e l’ammirazione di Masala nei confronti di Lussu. Dopo l’esperienza politica nello PSIUP Masala – è lui stesso a sottolinearlo più volte – non aderirà più ad alcun Partito politico e sarà un libero cane sciolto. Con l’esplosione del Movimento del ’68 simpatizzerà con gli studenti e gli extraparlamentari ma anche a loro rimprovererà forme di colonialismo politico: con l’importazione in Sardegna di gruppi e gruppuscoli da Milano e altre città italiane e relativi programmi e proposte. La sua battaglia politico-culturale (scriverà oltre saggi, romanzi, poesie, moltissimi articoli su Quotidiani e riviste, in modo particolare nel periodico Nazione sarda, con Lilliu, Eliseo Spiga, Antonello Satta, Elisa Nivola) sarà sempre più incentrata nella difesa della lingua sarda e dunque nella rivendicazione del Bilinguismo perfetto. Lingua sarda – nei nostri frequenti incontri e discussioni, me lo ripeteva fino all’ossessione – la cui salvezza e salvaguardia dipendeva soprattutto dal suo insegnamento, come materia curriculare, nelle scuole di ogni ordine e grado. Non aderirà neppure ai Movimenti e Partiti indipendentisti: pur essendo ormai la sua posizione di critica radicale all’Italia (un cadavere che puzza) da cui dunque occorreva allontanarsi al più presto.
 
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 12:18
Invio
 
 
 
 
 
 
Scrivi a Francesco Casula